"la vergine è più forte dello scorpione, ma se tizio fosse stato del leone vi avrebbe fatto vedere lui!"
"a me non potete dire un cazzo, sono del capricorno dopato acquario".
queste ed altre amenità potete leggerle qui:
http://www.tuttobiciweb.it/index.php?page=news&cod=55811&tp=n
e magari cercarle intorno a voi, o tra i vostri valori più sacri.
Simeoni: «Vi racconto io quello che non ha detto Lance» |
«Il suo show però può far bene. Oggi però c'è più pulizia» |
ARMSTRONG | Dove cominciamo: dal 2001? 2004? 2008? Oggi? «Tutte date importanti». Allora partiamo da oggi: cos'ha provato guardando la confessione show di Armstrong in tivù? «Sinceramente rabbia. Ha detto cose che si sapevano già e che facevano comodo solo a lui. Avrebbe dovuto dire cose più importanti. È stato uno show studiato per colpire il cuore della gente. Io ho perso gli anni più belli della mia carriera, Lance ha avuto successo, fama, soldi. È caduto un mito». Armstrong è stato sempre osannato e riverito, al di là dei sette Tour vinti: perché? «Perché è arrivato nel momento giusto: Pantani era stato appena fermato, serviva un personaggio che lo facesse dimenticare in fretta. E Lance aveva tutto per essere personaggio. Veniva in Italia ed era ricevuto dal ministro degli esteri Frattini; in Francia andava da Sarkozy; negli Stati Uniti faceva campagna elettorale per Bush: era un personaggio da Hollywood. Più facile attaccare Simeoni, vero? Io ero un suo tifoso, mi emozionai per quella vittoria al Tour del ’99. Poi vivendo dentro al gruppo ti vengono tanti dubbi e oggi c'è la conferma che era tutto un inganno». Lo show di Armstrong fa bene o fa male al ciclismo? «Farà bene. Questa confessione - pur parziale - sarà un punto-chiave del prossimo ciclismo. Era doveroso che facesse qualcosa, non poteva più nascondersi». Perché non c'è stata tra voi corridori una ribellione di massa? «Perché il suo carisma era di gran lunga superiore alla nostra volontà. Non era neanche facile organizzarsi, ognuno ragionava per sé. È mancata una politica sportiva sana che tutelasse noi tutti. Una persona lungimirante avrebbe dovuto capire che non si poteva andare avanti così: con un doping radicato si poteva soltanto peggiorare». Può parlarci del doping praticato durante i suoi anni da professionista? «Dividerei due periodi: prima del '99 in cui ci fu la diffusione massiccia di Epo, perché non c'erano né regole né controlli e sembrava fosse quasi lecito. Tutti sullo stesso piano, chi vinceva era super». Seconda fase? «Dopo il ’99 quando stabilirono il tetto del 50% di ematocrito: una sorta di ammissione di doping da parte del governo ciclistico, una specie di legalizzazione dell'Epo. Come dire: usatela ma con cautela». Nel Duemila l'Italia introduce la legge antidoping e doparsi diviene un reato penale. Cosa avviene nel gruppo? «Ci fu un salto di qualità: diminuisce il doping di massa e aumenta il doping d'élite. L'Epo viene rintracciata, chi può passa alla trasfusione di sangue, una pratica che non era alla portata di tutti: per i costi e per l'organizzazione necessaria per attuarla occorreva uno staff medico adeguato». Può fare un esempio? «Il Tour 2004: l'ho concluso a 42 minuti da Armstrong. Quel doping d'élite ha rotto l'equilibrio, era impossibile competere alla pari». Torniamo all'inchiesta 2003 sul dottor Ferrari? «Ero testimone, ho parlato sotto giuramento. Ho detto che Ferrari mi consigliò di usare Epo per affrontare il Giro. L'ambiente ciclistico ha fatto muro, mi sono sentito umiliato». Com'era, com'è il dottor Ferrari? «Preparazione straordinaria, professionalmente impeccabile, mi incuteva soggezione». Per Armstrong è una brava persona. «E mica posso dire che sia cattivo! Sono stato io ad andare da lui, non il contrario. Tutto il ciclismo ci andava. Non è stato facile: lui era selettivo. La prima volta mi ha detto: ?Non ho tempo da perdere, non prendo atleti mediocri, facciamo un paio di test e vediamo come vai?. Esame superato, ero nell'élite. Lo pagavamo in base ai nostri stipendi. Io 10.000 euro l'anno, i campioni di più: mi veniva da pensare che anche il doping fosse differente». In altri sport ci si dopa per vincere, nel ciclismo ci si dopa per partire. È così? «Non proprio. A quel tempo senza Epo non potevi fare un Giro o un Tour d'alto livello. Era una pratica diffusa». E oggi? «Ho la percezione che il ciclismo sia molto più pulito. Sono stato professionista per sedici anni e prima la situazione era più nera. Il passaporto biologico e i controlli a sorpresa si sono rivelati un ottimo deterrente. Ora bisogna avere il coraggio e la determinazione di continuare su questa strada. Tutti dovrebbero fare un bell'esame di coscienza e chiedersi perché hanno portato il ciclismo nel baratro. Ci vuole tempo per riacquistare credibilità. Ci sono dirigenti, giornalisti, istituzioni, organizzatori complici del sistema. Basta con personaggi che sanno tutto e fanno finta di niente, basta falsità». Cosa dà in più l'Epo? «Ti fa recuperare prima le forze, hai la sensazione di fare meno fatica e hai un rendimento alto per tre settimane. Dà un 30% in più di forza, impieghi un paio di minuti in meno a percorrere una salita di dieci chilometri ». Ha effetti collaterali? «No, io non stavo male. E poi attenzione: non ho mai fatto niente di testa mia, mi attenevo a quello che mi dicevano i medici. C'è gente che sostiene: se una dose fa bene, due fanno meglio. È l'errore più grande». Parlava di doping a casa? «No, non sapevano niente. Se ne parlava tra colleghi, perché era una cosa normale. È stato drammatico quando i carabinieri hanno bussato alle sei del mattino per una perquisizione. Non hanno trovato medicine: soltanto delle agende, perché sono un metodico e segno tutto. La mamma era spaventatissima: mi sono sentito un delinquente e ho deciso di parlare». Perché nella testa del corridore scatta la volontà di doparsi? «Quand'ero bambino sognavo di fare il corridore. Mi sono diplomato in ragioneria con 55/60, i professori mi spingevano a iscrivermi all'università e la Forestale mi offriva uno stipendio sicuro. Ho detto no a tutti, anche ai miei genitori. A 25-26 anni rincorrevo i sogni che facevo da bambino, mi guardavo attorno e vedevo cose strane». Vale a dire? «Nelle categorie giovanili vincevo, tra i professionisti no. Non capivo il cambiamento dei corridori: prima li battevo, poi mi staccavano. Ho letto, mi sono documentato: il test di Conconi, gli allenamenti in altura, l'alimentazione. Ho chiesto ai dottori: mi alleno tanto, sto attento a tutto ma non vado, perché?». Perché mancava quel qualcosa in più. «Giusto. Sono andato dal medico dove vanno i campioni: ho preso, ho visto i benefici, i risultati sono arrivati però poi non ti accontenti: vuoi sempre qualcosa di più. Per realizzare i miei sogni sono dovuto entrare nel sistema». Rifarebbe, oggi, quello che ha fatto? «Ci penso tante volte. Ho realizzato il sogno di bambino ma ne sono uscito deluso e amareggiato. E spesso penso: ma chi me l'ha fatto fare? Però io posso dire d'avere la coscienza a posto e il ciclismo non so: forse avrebbe dovuto avere più rispetto per me. Chissà, un domani forse l'atteggiamento cambierà, spero». Quanto è evoluto il doping? «Il doping è sempre avanti all'antidoping: è dimostrato e rivela il fallimento dei dirigenti che lo hanno governato in questi anni. Chi dirige lo sport deve anticipare i tempi». Il momento più bello della sua carriera? «La vittoria al campionato italiano, nel 2008. Ho pensato: cosa diranno di me, adesso? Poi però me l'hanno fatta pagare con l'umiliazione di escludere me e la mia squadra, la Ceramica Flaminia, dal Giro del 2009. Ero il campione italiano, era il Giro del Centenario. Io del Lazio, squadra del Lazio e Giro che si concludeva a Roma. Ho saputo che il direttore di quel Giro, Angelo Zomegnan, sostiene ancora che non davo garanzie tecniche, che arrivavo così indietro da rischiare l'arresto per vagabondaggio. Sarebbero questi i valori a cui fare riferimento?». E il momento più brutto? «Il Tour 2004. Io in fuga con altri cinque, Armstrong che viene a prenderci, Garcia Costa che mi dice: ha detto che con te dentro la fuga non va all'arrivo. E io che dovevo fare? Mi sono rialzato, l'ho fatto per loro. Poi Lance mi ha detto di tutto: con i miei soldi e i miei avvocati ti distruggo quando voglio». Non si sono comportati meglio i suoi colleghi in gruppo. «Qualcuno mi ha incoraggiato: Bettini, Simoni, poi Scarponi, Secchiari e gli altri miei compagni di squadra. Altri no: Pozzato, Nardello, Guerini me ne hanno dette di tutti i colori. Anche lì si è visto lo strapotere di Armstrong: l'Uci avrebbe dovuto punirlo ma non l'ha fatto». Però in quel 2004 è stato convocato in Nazionale da Ballerini. «La telefonata più emozionante dopo il Tour è arrivata da Alfredo Martini: mi ha detto che il gesto di Armstrong era deplorevole. Lì ho pensato: se mi impegno, guadagno la convocazione. Così è stato». C'è qualcuno che ha sfidato il potere e le è stato vicino? «Due persone. Vincenzo Santoni che mi ha portato al Tour anche se Cipollini, capitano della squadra e amico di Armstrong, non mi voleva. L'altro è Roberto Marrone, che mi ha chiamato nella Flaminia per costruire una squadra pro' laziale». Che fa oggi? «Sveglia la mattina alle sei, apro il bar, all'ora di pranzo mi dà il cambio mia moglie, nel pomeriggio ancora lì fino alle 20.30». E la squadra di bambini? «Sono quaranta, due allenamenti alla settimana, il primo la domenica mattina nella piazza di Sezze. È uno spettacolo vedere come loro si divertono e come la gente si ferma a guardarli». Ha dedicato la squadra a Pantani, si chiama ?Il Pirata?. «Marco era radicato nel cuore della gente, era un personaggio planetario, la gente parlava solo di lui, aveva carisma. Ho corso con lui da dilettante e tra i pro': vinceva nel periodo in cui il doping era accessibile a tutti, per me era e resta un campione, il più forte. Quand'ero dilettante la gente mi diceva: Vai Coppi; quando sono passato professionista mi urlava: Vai Pantani. Poi l'hanno crocifisso: ha pagato per tutti». C'è qualche genitore che le ha affidato suo figlio conoscendo il suo passato? «Sì, Sezze mi vuole bene e qualcuno mi ha detto: lo porto da te, perché so chi sei». C'è un corridore italiano che le ispira fiducia? «Nibali. Mi piace, è pulito, dà una bella immagine. L'ho conosciuto e mi ispira fiducia. Con tutti i controlli che ci sono sarebbe un matto se si dopasse». Pensa che la sua lotta contro... vento possa servire? «Mi auguro che possa offrire ai bambini un contributo per crescere bene». tratto da «Il Corriere dello Sport» del 24 gennaio 2013 a firma Nando Aruffo, Pietro Cabras e Marco Evangelisti |
su twitter mi avete ricordato "i pilastri della terra" e quella superlativa icona di ciò che vorrei farvi notare: waleran.
RispondiEliminail libro non finisce mai, e secondo me la mini-serie tv non lo fa rimpiangere affatto.
guarda su teleputredine